“Che cosa mi piace fare?
È quello che mi sono chiesto alle fine del liceo classico. Riuscire a capire il mondo che mi circondava, è stata la risposta.
Vivendo in campagna – Torrimpietra, nell’agro romano – il mio mondo era fatto di agricoltori e di terra. Per questo ho scelto di studiare agraria e poi di fare l’agronomo.
Quando ho comunicato la mia scelta ai miei genitori, mi hanno risposto: fai quello che vuoi. Anche se in famiglia sono tutti architetti, mio padre, mia madre e pure mio fratello. Per osmosi qualcosa m’è rimasto, direi un’attitudine istintiva al bello.
Tra i miei amici del liceo, pochi hanno colto quello che faccio.
Il mio amico avvocato mi vede come quello che finalmente riesce a spiegare l’articolo del codice civile che cita “lo sciame che sciama” e che regola la proprietà delle api che se ne vanno da un alveare.
Altri mi vedono come il contadino, ma non è il mio mestiere.
Io sono una sorta di mediatore culturale tra due mondi distanti: un sistema che è lontano dall’agricoltura e un altro che è difficile ed estremamente chiuso – quello contadino.
Quest’ultimo provoca in me un continuo stupore: sapere che un agricoltore ha utilizzato un elmetto della Seconda guerra mondiale, ci ha fatto un buco, ci ha attaccato un tubo e lo utilizza come un imbuto per il suo trattore, per me è motivo di meraviglia. Ci sono milioni di storie di questo tipo.
Sono innamorato del mio lavoro: non vorrei fare altro nella vita. Anzi, di più: non riuscirei a fare nient’altro.
Ho due figli, il primo di 5 anni e il secondo di 11 mesi. Trasmettere al più grande – e fra breve anche al più piccolo – la mia passione, è inevitabile e mi diverte tantissimo.
Io poi ho il vantaggio di conoscere chi fa le cose, ed è un punto di vista privilegiato perché non si tratta più dell’olio buono, ma dell’olio di Giuseppe.
Le patate sono di Antonello e la carne è di Alessandro. Ho portato Bernardo a far molire le olive, così ha visto il frantoio in azione. Voleva vedere i macchinari per capire come l’oliva diventasse olio. Ha visto la pasta che gramolava dentro le vasche di gramola. Mio figlio non dice ho visto le mucche, ma ho visto le vacche.Conosce i nomi di tutte le verdure: non è un cavolfiore, ma un broccolo romanesco.
Dare il nome giusto alle cose moltiplica il mondo che hai a disposizione, e lo impari anche in frutteria, attraverso il modo in cui definisci con precisione quello che vedi: non sono tutte cipolle indistinte, ma ci sono quella gialla e pure quella rossa di Tropea.
Inizi da qui e poi arrivi a considerare naturale che la differenza porta con sé sempre valore”.
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